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martedì 9 agosto 2011

Visioni di Riviera




Si abbassa lo sguardo a un certo punto, perché sorseggiando seduti non si arriva a godere delle scollature. Lo sguardo vola radente. Scansiona lo spazio visivo antistante come in un videogioco adolescenziale e vetusto, senza che vi siano alieni da abbattere. Nessuno potrebbe, all’inglese, “mettersi nelle scarpe altrui” (che suona come il nostrano “mettersi nei panni di…”). Al micotico stivaletto estivo s’alterna la scarpa da vela, quella da ginnastica preadolescenziale buona per ognidovecomequando, ma non sfugge il sandalo. Ho imparato a guardare nei piedi i miei interlocutori per capire se mi rifilassero un bidone. Ho capito che ci vogliono scarpe comode per fare gli agenti immobiliari, sbarcati in centro con cravattoni affissi su completi da becchino e facce da stadio. Se han scarpe lustre e facce da schiaffi sono avvocati. Ma questi sandali di fatta e di cuoio avvinghiati a piedi eburnei, nuovi, lustri, le cui pelli sembrano trasudare ancora il sangue plastico della selvaggina da cui si pretenderebbe provengano, fan persino venir voglia di tuffare le nari in quel profumo di pelle di daino e gettarsi su un parabrezza a far strage di moschini e zanzare.
Sandali chiusi come mocassini; cinghiati da tergo; completamente aperti a pantofola, ma soprattutto competamente nuovi. Appena scartati e indossati, senza l’alone di una camminata sudata e soddisfatta.
Mi tornano in mente gli abiti che a fine stagione, quarant’anni fa, da bambino, venivano lavati e stirati, riposti nella valgia dell’estate perché abiti “del mare”. Allora lo sguardo torna a motivarsi, risale non più a caccia di scollature e parvenze di slip tra curve abbondanti o sussiegose. Torna nella folla di ingegneri in vacanza, di capitani d’altura ammarati da sempre, tra un bailamme di sgargianti mises che in pullman non eviterebbero il palpeggio. Sopra il sandalo non può mancare il bermuda con la riga, blue (non blu!) meglio se crema o pastellato, anche a quadrettoni mistifica il contadino e l’impiegato. Riemerge dall’ultimo cassetto il terital nero a pois bianchi (altro che prova costume!). E giù di polo bianche e blu, vicendevolmente accoppiate a bermuda blu o bianchi, manca il cappello da tenente di vascello. I pants non si contano, né qui né in città d’altronde, ma il capezzolo orgoglioso preme perché lo sguardo colga al passo la schiena nuda e sofistichi attorno a quella prima desnuda, che sgambetta tutta attenta a gli argomenti del bovaro accanto.
Poi finalmente, il Guernica si fa realtà. Un Jack Daniels stilla dal palato, nascosto tra la solitudine di un Houellebeq letto per svago, una voluta di Benson sale noncurante tracciando un confine tra i tavolini di un de-hors sulla passeggiata e arrivano loro, gli ippopotami. Siedono pur senza oscurare il passeggio, ma subito lui maneggia tra le mozzarelle ramificate un’esiguo quadrato di fotocamera. Scatta impegnato e assorto. Sorride soddisfatto e mostra l’opera d’arte alla compagna. Lei l’osserva, volge la palpebra cadente in cerca dell’inserviente e scuote la piega piatta che le raggiunge l’occipite. Il pasto arriva. L’ippopotamo assorbe la panna dalla coppa gelato masticandola a bocca aperta con lievi e intermittenti torsioni del capo; lei fuma, sbadiglia, beve del suo e divaga. Il capo alterna al moto ondulatorio un tic sussultorio imprevedibile, ma sempre seguito da cenni di piacere. Poi la fagocitazione ha termine, la bocca si chiude mentre la lingua ne ripassa minuziosamente gli anfratti e le aree alveolodentali, schiocca ma non basta: come se un intero sfilacciato masticume di stinco di bove si fosse barricato tra i denti, l’ippopotamo muove all’arma bianca e l’unghia, chiacchierando, sbaraglia la resistenza interdentale.
Questo mondo lestofante, insomma, inscena una carnevalata marina per ripresentarsi tale e quale ignominiosamente appare per quel che è ogni giorno: brutale in modo sconfortate. Ed ecco solcare il sandalo traslucido che verrà riposto per la prossima vacanza; la mise luccicante che in ufficio non si metterebbe mai; il fuseau troppo aderente o la gonna trasparente; la camicia hawaiana o il floridame a pendant con il bermuda ingessato.
Vacanza, ovvero vuoto. Un vuoto riempito di festicciole demodé e di quisquilie, di argomenti vani e rotocalchi, interessi senza sabati e domeniche nelle restanti settimane. Non c’è Bce o Lampedusa che tenga, né lo Ied che scaraventa il Lince in prima pagina con gli onori di Stato, né l’Obama sconsolato o il NoTav, NoRadar, NoTuaMadreConNoiQuestEstatePerPiacereNo, finalmente l’oblio ricolmo di sciocchezze.
C’è soltanto un dialetto in Italia che ha l’ironia della confusione del genere e non è il mio. Il siciliano chiama l’organo sessuale maschile (minchia) al femminile e viceversa (sticchio). Come è questo vuoto chiamato vacanza. Entrambe le cose mi dan da pensare.
I nostri padri son portatori sani di antivalori.

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