Rifletto su questi argomenti dall’anno passato e avrei
voluto scrivere da quando lessi che in Val di Susa arrivavano i “carri armati”
quando si trattava dei Lince degli Alpini. Sarcasticamente mi venne da pensare
che non fosse tanto importante il mezzo con cui arrivavano ma che arrivassero:
trattandosi di Alpini non avrebbero potuto giungere sul luogo di stanza in
autostop o in treno, a piedi o con auto proprie, ma con mezzi in dotazione,
ovvero con dei banali gipponi blindati da guerra. Fossero stati chiamati i
Bersaglieri o la Cavalleria sarebbero forse arrivati con i carri armati Ariete,
e non con gipponi.
Il senso del discorso è ciò che in pragmatica (una branchia
della filosofia del linguaggio) si definisce “appropriatezza”.
Un altro senso che vorrei dare a questo scritto è il “senso
di responsabilità”.
Correlare questi due concetti significa trarre delle
conculsioni (tesi) dalle osservazioni sulla realtà attraverso delle congetture
(argomenti): un semplice sviluppo argomentativo personale e perfettibile.
Traggo spunto dalle recenti manifestazioni studentesche svoltesi
nelle diverse città italiane. Scontri a Torino, Milano e Roma.
Dal momento che la richiesta di autorizzazione per una
manifestazione riguarda il percorso a cui questa dovrà attenersi, deviare dal
percorso per tentere di raggiungere un luogo sensibile alle tematiche della
protesta significa controvertire l’autorizzazione stessa. Il che porta con sé
diverse implicazioni.
Una potrebbe essere dovuta al non riconoscimento
dell’autorizzazione come valore giuridico e procedurale della liceità della
protesta, poiché invalidata dal mancato riconoscimento dell’autorità
precostituita a rilasciare detta autorizzazione (ovvero: “Non ti riconosco come
autorità, non riconosco la necessità di subordinarmi al tuo imperativo in
quanto autorità, non riconosco il permesso concessomi sicché faccio quel che mi
detta la coscienza qualsiasi sia l’esito”).
Un’altra è l’antinome riconoscimento dell’autorità preposta
a rilasciare l’autorizzazione a percorrere un percorso stabilito e decidere di
violarla cercando di raggiungere luoghi preclusi, nonostante si sappia che
stanno al di là dell’autorizzazione stessa (ovvero: “Ti riconosco come
autorità, riconosco la necessità di subordinarmi al tuo imperativo in quanto
autorità, riconosco il permesso concessomi ma di mia sponte lo violo per i miei
fini”).
Entrambi gli esiti portano ineludibilmente a uno scontro con
le forze dell’ordine.
Sia che l’autorità precostituita venga riconosciuta e
consapevolmente si decida di violarne i dettami, sia che non venga
ideologicamente riconosciuta e, lo stesso, se ne violino i detttami, il
risultato è lo scontro con le forze dell’ordine, messe dall’autorità a
salvaguardia del dettame imposto. È una realtà.
Se una carica della Polizia è, come ormai spesso avviene
(detta “di alleggerimento”) arbitraria o unilaterale (diciamo pure provocatoria
spesso) decisa da zelanti funzionari pronti a interpretare qualsiasi
folcloristico e chiassoso assembramento come un’aggressione, è vero pure che
una carica deve essere responsabilmente registrata e prevista da chi la
subisce: una reazione spontanea del sistema al sovvertimento del dettame
imposto dall’autorià. Insomma, se vuoi lo scontro, se cerchi lo scontro, se lo
scontro dev’essere prevedibile nell’azione perturbatrice che decidi di
intraprendere, è anche tua responsabilità riconoscere che lo scontro è
provocato (anche soltanto nei confronti dell’ordine costituito verso il quale
ti opponi e che non avvalli come tale) e che produrrà delle conseguenze, per
evitare le quali devi provvedere alle tue difese.
Personalmente mi irritano i piagnistei.
Se decidi di infrangere un ordine devi renderti responsabile
di quel che fai: se lo vuoi fare pacificamente devi renderti disponibile a
farti picchiare e arrestare; se lo fai in modo violento ti armi per affrontare
l’avversario e provvedere a una vittoria di tipo militare, disposto a darle e a
prenderle. Ma controvvertire un ordine e piangere perché il regime ha usato
violenza senza che a questa violenza non ci sia adeguata e responsabile
risposta pecca di uno spontaneismo ingenuo e irresponsabile.
Questo spontaneismo ingenuo e irresponsabile è ciò che
riempie le bocche dei cinquantenni nei bar di tutta Italia. Basterebbe
abbassare le tasse, togliere l’Imu, diminuire i ticket sanitari: eliminare i
pedaggi autostradali varrebbe poi un successo elettorale garantito.
Ma è ciò che vogliamo?
Lo spontaneismo non distingue. Non distingue l’ordine in cui
è calato e al quale deve rispondere secondo precise responsabilità a cui è
comandato e confonde ancora una volta la libertà con il libertinaggio, far quel
che si vuole: nessuno può far quel che vuole, per far quel che vuole, se è
un’idea valida e portante, è meglio che ciascuno si prepari a combattere. Ma
quel che vuole, quel ciascuno, deve averlo ben chiaro.
Per rimanere sul tema della violenza: negli anni Settanta si
parlava nei media di violenza quando un corteo cominciava con il lancio di
molotov e finiva a pistolettate, ora si parla di violenza quando un corteo
comincia pacificamente e si risolve con il lancio di qualche pietra e qualche
lacrimogeno. Fermo restando che le manganellate battevano sulla schiena allora
come ora, e ora certo con frequenza sempre maggiore, il tono di media e
movimenti si è alzato. Se si parla con un funzionario di Polizia cinquantenne
“una pietra ci sta” (per un ventenne è un’aggressione insopportabile), se si
parla con un ragazzo delle superiori una manganellata “è una violazione della
democrazia” (a vent’anni negli anni Settanta si vedevano sparire i compagni di
classe per poi saperne qualcosa soltanto mesi dopo quando erano già rinchiusi
in carceri speciali). In democrazia non bisognerebbe arrivare a tali
affermazioni. Ma non siamo in democrazia, prenderne atto sarebbe già assumere
un punto vista più consono e veritiero. Riflettere quindi sullo spontaneismo e
sulla responsabilità delle proprie azioni, e sul risultato che da esse si
vorrebbe trarre sarebbe un bel passo avanti.
Un altro passo avanti, nel senso delle responsabilità, è ciò
che gli studenti e i giovani in generale, potrebbero/dovrebbero mettere in
atto. Chiedere che ci siano più soldi per ogni necessità è di per sé una
necessità (una lotta necessaria a far fronte a necessità), ma significa in
fondo rifluire nell’alveo di un sistema che andrebbe rivisto dalle sue
fondamenta. Personalmente ritengo che le ideologie siano imprescindibili, ma
anche senza essere anarchici, comunisti o socialisti ortodossi è possibile trovare
vie alternative, con le quali progredire in un processo in cui la parola
“progresso” non si presenti come un contenitore vuoto, da riempire con le
attrattive più immediate che il “mercato” elargisce sul grafico del maggior
profitto. Sottrarsi all’ottica del “mercato” in quanto nuovo dogma e religione
(“religio” in latino arcaico significa “legame”) porta con sé innumerevoli
campi di indagine da approfondire, per cui lottare, poiché realmente latori di
“progresso” dell’essere umano.
Se le generazioni odierne sono frutto di quelle passate è a
queste che si devono ribellare, sovvertendo paradigmi da esse imposte: la
“fatica” non è un valore, ma soltanto un mezzo funzionale a ottenere stati
dell’essere o cose; il “valore umano” non è funzionale a quanto può produrre ma
a quanto di affettivo può corrispondere in termini di crescita “insieme”;
l’ambiente è parte integrante del proprio essere e incontrovertibilmente degno
di rispetto e cura; il lavoro non è un valore di per sé ma deve rispettare
valori etici e sociali che corrispondano a un accrescimento del valore
individuale e sociale, e non di profitto (il mercato anche ha un suo valore ma
deve poggiare sul valore del lavoro e così l’economia e la finanza).
Soltanto mi chiedo se lo spontaneismo tenga conto di assunti,
soltanto esemplificativi e deficitari, quanto quelli esposti. Mi chiedo quanto
senso di responsabilità si sia disposti ad assumersi per richiedere (ancora una
volta, una volta ancora) ad altri per delega il benessere proprio e della
società umana intera (a tu che leggi non crederai che la diga contro la quale
lottano i Mapuche sia distante e non interessi vero?).
Si tratta sempre di soldi, ma dietro al soldo sta il tempo,
l’aspettativa, l’energia, l’enfasi e la generosità, il progetto, il tempo sottratto
ad altro che ciascuno decide di impegnare perché la propria vita sia migliore,
perché la vita dello sconosciuto vicino di casa sia migliore, perché la vita
dell’essere umano a dodicimila chilometri di distanza sia migliore.
Ecco allora che lo scontro lo la Polizia assuma un
significato, e smette di produrre piagnistei ma prese di posizione
inequivocabili.
Io ho cinquant’anni. Se voi che ne avete diciassette non mi
prendete per le palle e mi stringete a un angolo costringendomi a rivedere le
mie categorie con i vostri assunti forti, violenti anche, avrete avuto
diciassette anni per niente.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.