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domenica 7 ottobre 2012

Se piangono per le mangannellate, ridano per le loro idee




Rifletto su questi argomenti dall’anno passato e avrei voluto scrivere da quando lessi che in Val di Susa arrivavano i “carri armati” quando si trattava dei Lince degli Alpini. Sarcasticamente mi venne da pensare che non fosse tanto importante il mezzo con cui arrivavano ma che arrivassero: trattandosi di Alpini non avrebbero potuto giungere sul luogo di stanza in autostop o in treno, a piedi o con auto proprie, ma con mezzi in dotazione, ovvero con dei banali gipponi blindati da guerra. Fossero stati chiamati i Bersaglieri o la Cavalleria sarebbero forse arrivati con i carri armati Ariete, e non con gipponi.
Il senso del discorso è ciò che in pragmatica (una branchia della filosofia del linguaggio) si definisce “appropriatezza”.
Un altro senso che vorrei dare a questo scritto è il “senso di responsabilità”.
Correlare questi due concetti significa trarre delle conculsioni (tesi) dalle osservazioni sulla realtà attraverso delle congetture (argomenti): un semplice sviluppo argomentativo personale e perfettibile.

Traggo spunto dalle recenti manifestazioni studentesche svoltesi nelle diverse città italiane. Scontri a Torino, Milano e Roma.
Dal momento che la richiesta di autorizzazione per una manifestazione riguarda il percorso a cui questa dovrà attenersi, deviare dal percorso per tentere di raggiungere un luogo sensibile alle tematiche della protesta significa controvertire l’autorizzazione stessa. Il che porta con sé diverse implicazioni.
Una potrebbe essere dovuta al non riconoscimento dell’autorizzazione come valore giuridico e procedurale della liceità della protesta, poiché invalidata dal mancato riconoscimento dell’autorità precostituita a rilasciare detta autorizzazione (ovvero: “Non ti riconosco come autorità, non riconosco la necessità di subordinarmi al tuo imperativo in quanto autorità, non riconosco il permesso concessomi sicché faccio quel che mi detta la coscienza qualsiasi sia l’esito”).
Un’altra è l’antinome riconoscimento dell’autorità preposta a rilasciare l’autorizzazione a percorrere un percorso stabilito e decidere di violarla cercando di raggiungere luoghi preclusi, nonostante si sappia che stanno al di là dell’autorizzazione stessa (ovvero: “Ti riconosco come autorità, riconosco la necessità di subordinarmi al tuo imperativo in quanto autorità, riconosco il permesso concessomi ma di mia sponte lo violo per i miei fini”).
Entrambi gli esiti portano ineludibilmente a uno scontro con le forze dell’ordine.
Sia che l’autorità precostituita venga riconosciuta e consapevolmente si decida di violarne i dettami, sia che non venga ideologicamente riconosciuta e, lo stesso, se ne violino i detttami, il risultato è lo scontro con le forze dell’ordine, messe dall’autorità a salvaguardia del dettame imposto. È una realtà.
Se una carica della Polizia è, come ormai spesso avviene (detta “di alleggerimento”) arbitraria o unilaterale (diciamo pure provocatoria spesso) decisa da zelanti funzionari pronti a interpretare qualsiasi folcloristico e chiassoso assembramento come un’aggressione, è vero pure che una carica deve essere responsabilmente registrata e prevista da chi la subisce: una reazione spontanea del sistema al sovvertimento del dettame imposto dall’autorià. Insomma, se vuoi lo scontro, se cerchi lo scontro, se lo scontro dev’essere prevedibile nell’azione perturbatrice che decidi di intraprendere, è anche tua responsabilità riconoscere che lo scontro è provocato (anche soltanto nei confronti dell’ordine costituito verso il quale ti opponi e che non avvalli come tale) e che produrrà delle conseguenze, per evitare le quali devi provvedere alle tue difese.
Personalmente mi irritano i piagnistei.
Se decidi di infrangere un ordine devi renderti responsabile di quel che fai: se lo vuoi fare pacificamente devi renderti disponibile a farti picchiare e arrestare; se lo fai in modo violento ti armi per affrontare l’avversario e provvedere a una vittoria di tipo militare, disposto a darle e a prenderle. Ma controvvertire un ordine e piangere perché il regime ha usato violenza senza che a questa violenza non ci sia adeguata e responsabile risposta pecca di uno spontaneismo ingenuo e irresponsabile.
Questo spontaneismo ingenuo e irresponsabile è ciò che riempie le bocche dei cinquantenni nei bar di tutta Italia. Basterebbe abbassare le tasse, togliere l’Imu, diminuire i ticket sanitari: eliminare i pedaggi autostradali varrebbe poi un successo elettorale garantito.
Ma è ciò che vogliamo?
Lo spontaneismo non distingue. Non distingue l’ordine in cui è calato e al quale deve rispondere secondo precise responsabilità a cui è comandato e confonde ancora una volta la libertà con il libertinaggio, far quel che si vuole: nessuno può far quel che vuole, per far quel che vuole, se è un’idea valida e portante, è meglio che ciascuno si prepari a combattere. Ma quel che vuole, quel ciascuno, deve averlo ben chiaro.
Per rimanere sul tema della violenza: negli anni Settanta si parlava nei media di violenza quando un corteo cominciava con il lancio di molotov e finiva a pistolettate, ora si parla di violenza quando un corteo comincia pacificamente e si risolve con il lancio di qualche pietra e qualche lacrimogeno. Fermo restando che le manganellate battevano sulla schiena allora come ora, e ora certo con frequenza sempre maggiore, il tono di media e movimenti si è alzato. Se si parla con un funzionario di Polizia cinquantenne “una pietra ci sta” (per un ventenne è un’aggressione insopportabile), se si parla con un ragazzo delle superiori una manganellata “è una violazione della democrazia” (a vent’anni negli anni Settanta si vedevano sparire i compagni di classe per poi saperne qualcosa soltanto mesi dopo quando erano già rinchiusi in carceri speciali). In democrazia non bisognerebbe arrivare a tali affermazioni. Ma non siamo in democrazia, prenderne atto sarebbe già assumere un punto vista più consono e veritiero. Riflettere quindi sullo spontaneismo e sulla responsabilità delle proprie azioni, e sul risultato che da esse si vorrebbe trarre sarebbe un bel passo avanti.
Un altro passo avanti, nel senso delle responsabilità, è ciò che gli studenti e i giovani in generale, potrebbero/dovrebbero mettere in atto. Chiedere che ci siano più soldi per ogni necessità è di per sé una necessità (una lotta necessaria a far fronte a necessità), ma significa in fondo rifluire nell’alveo di un sistema che andrebbe rivisto dalle sue fondamenta. Personalmente ritengo che le ideologie siano imprescindibili, ma anche senza essere anarchici, comunisti o socialisti ortodossi è possibile trovare vie alternative, con le quali progredire in un processo in cui la parola “progresso” non si presenti come un contenitore vuoto, da riempire con le attrattive più immediate che il “mercato” elargisce sul grafico del maggior profitto. Sottrarsi all’ottica del “mercato” in quanto nuovo dogma e religione (“religio” in latino arcaico significa “legame”) porta con sé innumerevoli campi di indagine da approfondire, per cui lottare, poiché realmente latori di “progresso” dell’essere umano.
Se le generazioni odierne sono frutto di quelle passate è a queste che si devono ribellare, sovvertendo paradigmi da esse imposte: la “fatica” non è un valore, ma soltanto un mezzo funzionale a ottenere stati dell’essere o cose; il “valore umano” non è funzionale a quanto può produrre ma a quanto di affettivo può corrispondere in termini di crescita “insieme”; l’ambiente è parte integrante del proprio essere e incontrovertibilmente degno di rispetto e cura; il lavoro non è un valore di per sé ma deve rispettare valori etici e sociali che corrispondano a un accrescimento del valore individuale e sociale, e non di profitto (il mercato anche ha un suo valore ma deve poggiare sul valore del lavoro e così l’economia e la finanza).
Soltanto mi chiedo se lo spontaneismo tenga conto di assunti, soltanto esemplificativi e deficitari, quanto quelli esposti. Mi chiedo quanto senso di responsabilità si sia disposti ad assumersi per richiedere (ancora una volta, una volta ancora) ad altri per delega il benessere proprio e della società umana intera (a tu che leggi non crederai che la diga contro la quale lottano i Mapuche sia distante e non interessi vero?).
Si tratta sempre di soldi, ma dietro al soldo sta il tempo, l’aspettativa, l’energia, l’enfasi e la generosità, il progetto, il tempo sottratto ad altro che ciascuno decide di impegnare perché la propria vita sia migliore, perché la vita dello sconosciuto vicino di casa sia migliore, perché la vita dell’essere umano a dodicimila chilometri di distanza sia migliore.
Ecco allora che lo scontro lo la Polizia assuma un significato, e smette di produrre piagnistei ma prese di posizione inequivocabili.
Io ho cinquant’anni. Se voi che ne avete diciassette non mi prendete per le palle e mi stringete a un angolo costringendomi a rivedere le mie categorie con i vostri assunti forti, violenti anche, avrete avuto diciassette anni per niente.

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