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mercoledì 20 aprile 2011

Della giustificazione comportamentale (Un caso di disvalore della verità)



La morale comune o anche soltanto il senso comune e la più comune educazione morale insegnano la verità come valore, ovvero la “verità proposizionale” tanto cara ai logici. La verità è valore quando il “contenuto proposizionale” di un’asserzione è complanare al designazione del contenuto, ovvero che quanto viene detto corrisponde al vero. La logica conversazionale di Grice, recepita dalla filosofia del linguaggio (ma non dalla logica vero-funzionale ovviamente), ha già fatto ampiamente luce a suo tempo su quanto questa complanarietà non renda conto di ciò che egli chiama “implicature”, ovvero dei modi in cui la comunicazione viene prodotta e recepita non facendo perno sulla verità del contenuto proposizionale ma su un’insieme di assunti conosciuti sia da parlante sia dall’ascoltatore. Questi studi si irradicano sull’assunto di Wittgenstein secondo il quale “la lingua sta nel suo uso”.
La premessa, per quanto stopposa, è necessaria per un necessario distinguo: mentre nel caso delle implicature di Grice o degli studi di Austin su comportamenti linguistici chiamati Atti linguistici le diverse tipologie di comunicazione non sono alternative alla verità, ma soltanto un modo diverso per renderla o per agire su di essa (contenuto proposizionale apparentemente incoerente nell’uno – p. es.: D.- E’ arrivato Luigi? R. - La macchina non è ancora parcheggiata; soddisfazione di certe specifiche condizioni nell’altro – p. es: Io ti battezzo! - Crea una condizione ma non si può dire che sia vero o falso, agisce sulla realtà in modo che la lingua “faccia” qualcosa piuttosto che “dica” qualcosa), nel caso della giustificazione comportamentale la verità proposizionale crea al contrario un conflitto.
La giustificazione del proprio comportamento può giungere a soddisfazione (essere recepita e accettata) in due modi antitetici per forma e sostanza:
1)      attraverso l’affermazione di verità (“verità proposizionale”)
2)      attraverso l’affermazione di “priorità” (spesso “falsità proposizionale”).
Posso cioè aderire alla morale e affermare il vero, o posso, senza dire il vero, cercare una “scusa” qualsiasi purché aderisca alla scala di valori del mio interlocutore, alla scala di priorità assoluta (ovvero generica del mio interlocutore, che fa o può far parte del senso comune) o relativa (ossia propria della situazione in cui si è calati).
Però:
1)      se affermo il vero posso: sperare che il contenuto delle mie parole vere venga recepito e compreso; nel caso contrario dovrò “fare in modo” che venga recepito e compreso moltiplicando le giustificazioni in modo esponenziale poiché di ordine superiore alla prima. Es.: Tizio deve partecipare al matrimonio di Caio, ma il giorno del suo matrimonio per Tizio è anche l’unico dopo mesi e sarà l’unico per mesi a venire in cui può andare a pesca con Sempronio. Tizio spiega a Caio la situazione: deve scegliere tra due cose “per lui” importanti e sceglie la pesca con Sempronio.
a)      Caio conosce o non conosce la condizione di Tizio, e benché sbilanciata sul piano delle proprie priorità (più importante il proprio matrimonio della pesca di Tizio con Sempronio) l’accetta;
b)     Caio conosce o non conosce la condizione di Tizio, ma poiché sbilanciata rispetto ai propri valori e alla propria scala di priorità non l’accetta. Caio deve insistere per creare le condizioni di comprensione e accettazione e può, da questo punto in avanti, soltanto fare appello a giustificazioni di ordine superiore: il valore del tempo, dell’amicizia, delle possibilità perdute ecc.
  In entrambe i casi Tizio chiede a Caio di essere capito sulla base delle proprie scale, di valori e di priorità; chiede cioè a Caio di fare uno sforzo di comprensione, vuoi o non vuoi soddisfatto infine (Caio può benissimo offendersi e non accettare per niente le giustificazioni di Tizio, il quale peraltro rischia il depauperarsi della stima di Caio nei propri riguardi).
Ciò che accade è che Caio chiede a Tizio di compiere uno sforzo in suo favore, Caio esercita su Tizio un comportamento impositivo perché Tizio si trova a dover produrre un giudizio differenziale, ovvero giudicare valori e priorità altrui sulla base dei propri e conformare sulla base di questo giudizio il suo comportamento finale fatto di accettazione o repulsione. Accettazione e repulsione che dipenderanno dalla disponibilità di Tizio a “livellare” la disparità tra le diverse scale di valori e priorità: l’accettazione risiede proprio nel valore differenziale tra le scale di valore, è cioè la misura di quanto necessario a colmare la disparità (propria scala di valori – scala di valori altrui = accettazione).

2) Al contrario posso non affermare il vero ma configurare una condizione congruente alla scala di valori e priorità appartenente all’interlocutore o da lui facilmente riconoscibile.
Nell’esempio precedente Tizio non dice a Caio che non parteciperà al suo matrimonio per andare a pesca con Sempronio, ma che dovrà partecipare al funerale di un parente prossimo al quale non può mancare per venire in soccorso a un/una congiunta, star vicino alla madre per esempio.
Ciò che si può aspettare da Caio è la piena comprensione, non solo per l’ineluttabilità della condizione, della giustificazione addotta, ma perché di eguale forza (contraria) a quella che il proprio matrimonio esercita sulla sua scala di valori e priorità.
Caio non esercita un potere impositivo su Tizio, non lo obbliga cioè a “comprendere” la propria situazione, elaborando un giudizio differenziale, o meglio giudizio differenziale viene neutralizzato dalla complanarietà del contenuto delle scale di valori proprie e dell’interlocutore.

Quanto asserito vale banalmente per ciò che comunemente viene chiamato “scusa”, ma la natura stessa della “scusa” è composita e andrebbe analizzata.
In realtà lo stesso meccanismo si innesca ogniqualvolta, vuoi per cultura vuoi per retroterra esistenziale distinto e remoto, ci si incaponisce a far valere le proprie ragioni nella speranza che la “verità proposizionale” venga compresa, quando una “verità di scala” avrebbe maggiore successo. Del resto, nella natura stessa della scusa, il contenuto della giustificazione accampata, la verità delle parole, non giustifica un’opinione ma una volontà/possibilità di soddisfare una certa condizione (familiare, lavorativa, amicale, sociale ecc.). Il contenuto proposizionale della giustificazione non ha valore in sé se non in fuzione del grado di comprensione/accettazione che può elicitare.
Se quindi la necessità non risiede tanto nel riconoscimento della verità proposizionale, ma nell’elicitazione della comprensione/accettazione, allora viene meno anche la stessa forza del valore di verità di una “verità proposizionale”: non è tanto significativo quello che si dice, ma il piano su cui ci si pone rispetto al nostro interlocutore.
L’accettazione di un proprio comportamento può dirsi felice anche attraverso una “falsità proposizionale” tale da adeguarsi alla stessa scala di priorità e valori se fosse una “verità proposizionale”: non si esercita potere impositivo sull’interlocutore, ci si pone sul suo stesso piano e non si rischia la disistima in caso di non accettazione. E porsi ad un grado di comporensione possibile per l’interlocutore anziché pretendere di essere compresi sulla base della propria scala di valori anziché sull’altrui mi sembra più importante della verifica vero-funzionale della verità proposizionale, ovvero se quanto detto corrisponde al vero.

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