Virgil Oldman, interpretato dall’ottimo Geoffrey Rush, è un antiquario
battitore d’aste il cui talento è riconosciuto a livello internazionale. È colto
e raffinato, la sua alterigia è cifra di una elevata stima di sé e del valore
della sua erudizione. Ma non è soltanto il modo con il quale tiene distanti gli
altri, è ciò che permette anche ai suoi stessi occhi di non badare alla fobia che
lo porta a non toccare alcunché senza guanti, che possiede a profusione, o senza
aver prima avvolto ogni cosa con un fazzoletto pulito.
Claire è la giovane ereditiera di
una villa ricolma di mobilia di prestigio e oggetti d’arte di cui decide di
disfarsi, e su indicazione del padre, si rivolge al “migliore”, Virgil Oldman.
Tra i due il rapporto si preannuncia
tumultuoso: Claire si nega, revoca il mandato poi ci ripensa, non si fa trovare
poi rinnova gli appuntamenti; Oldman, troppo sussiegoso per scendere a compromessi,
oscilla appresso alla cliente di converso, ma sempre più attirato dalla sua
invisibilità, da quell’agorafobia all’ultimo stadio che la tiene lontana dal
mondo, relegata da anni in una solitudine assoluta. Ma anche se rescinderebbe volentieri il contratto cessando
ogni rapporto con Claire, le cantine della sua villa rivelano a ogni sopralluogo
oggetti, ingranaggi arrugginiti che nelle mani del giovane Robert prendono forma
prospettando l’idea di avere a che fare con un antesignano settecentesco di un
umanoide, un robot.
L’interesse per Claire cresce di
pari passo al rinvenimento di sempre differenti ingranaggi arrugginiti, e nelle
conversazioni tra Mister Oldman e Robert
prende a occupare sempre maggior interesse. La relazione tra Claire e Mister
Oldman si approfondisce, i consigli di Robert sulla seduzione si rivelano preziosi, ma non
tutto è ciò che appare.
Puntuale è Giuseppe Tornatore
quando spiega, intervistato, di aver voluto raccontare una storia d’amore
seguendo la struttura e i canoni narrativi del giallo, del thriller. La suspense
domina l’intera vicenda come colta dal dettame di Hitchcok, in cui ogni piccolo
particolare diviene simbolo correlato: come nel vecchio frammento di legno bruciacchiato
che Oldman rinviene tra il ciarpame di un vecchio mobile si intravede a
fatica un occhio – e sarà l’occhio di Claire che vedrà di sfuggita attraverso
la parete dando adito a un nuovo alterco –, o quando lo stesso dipinto sarà ripulito e Oldman lo dichiarerà
falso – come è falsa la tinta per capelli che l’inquadratura successiva riprende
in primissimo piano, mentre il largo pennello sparge sulla sua capigliatura
incanutita.
Il falso e il vero, quale porzione
del primo risieda nel secondo sempre, intesse l’intera vicenda come dilemma
filosofico portante.
Una vicenda fiabesca perché potrebbe
avvenire ovunque: girata per lo più a Trieste, ha vetture targate Vienna; i personaggi
ostentano nomi inglesi. Per qualificare il luogo della reclusione fisica di
Claire e psicologica di Virgil Oldman, Tornatore ha scelto un non luogo, un
luogo utopico che potrebbe essere ovunque. Un luogo il cui tempo oscilla tra personaggi
contemporanei, immersi in un’aura settecentesca di interessi e oggetti, la cui
somma, ancor prima che rendersi palese nei polverosi inventari in cui Oldman si
cala tra mobilia di ogni specie, si rende vivida in quel laboratorio di Robert che ha della Wunderkammer il piacere barocco della Meraviglia, traboccante di congegni strani.
Una Meraviglia non solo oggettuale ma intellettuale, fatta di saperi antichi e
di dotta competenza di mondi nascosti ai più, ma Meraviglia anche intrinseca
alla struttura stessa del film, che come detto, monta particolare con particolare
in un ordito di significati, che diventano tali soltanto dopo esser stati
simboli inerenti alla vicenda stessa: come il flute con monogramma in cui
Oldman è solito bere al suo ristorante di fiducia, che miracolosamente compare
tra le sue mani in un locale che è Robert a frequentare, e sparisce quando la
sua fobia prende a dileguarsi, a sciogliersi e Oldman pure si toglie i guanti e
tocca con mano l’amore.
Vi si rinviene certa atmosfera surreale
di Greenaway, la tessitura di Hitchcock e Brian De Palma, la strutturazione
temporale interna alla fabula di Flaubert, in cui ogni oggetto rappresenta
un segnale di inizio o fine di un segmento narrativo, di climax o anticlimax, la prospettiva di un cambio o di un colpo di scena. Ma certo si tratta di una sorta di bildungroman che per sottrazioni successive destruttura le caratteristiche
dei personaggi, restituendoli alla propria umana genuinità, "guarendoli". Eppure come il falso si annida nel vero, è vero anche il contrario, come ogni falsario che si rispetti tradisce se
stesso lasciando un’impronta di sé anche nel falso meglio riuscito, per rendere unico anche quell'oggetto copiato; così anche
la nana sempre alla finestra del bar, impegnata sempre a dimostrare la sua impressionante
bravura matematica con calcoli inarrivabili, appiana la sua lucida follia: non manda più a memoria operazioni
complicatissime ma segna il climax del cambiamento con una sequela di antinomie
matematiche, di paradossi logici più o meno conosciuti.
Virgil Oldman è calato in un paradosso, ritroverà se stesso soltanto perdendosi.
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