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giovedì 31 gennaio 2013

Invito alla visione de La migliore offerta




Virgil Oldman, interpretato dall’ottimo Geoffrey Rush, è un antiquario battitore d’aste il cui talento è riconosciuto a livello internazionale. È colto e raffinato, la sua alterigia è cifra di una elevata stima di sé e del valore della sua erudizione. Ma non è soltanto il modo con il quale tiene distanti gli altri, è ciò che permette anche ai suoi stessi occhi di non badare alla fobia che lo porta a non toccare alcunché senza guanti, che possiede a profusione, o senza aver prima avvolto ogni cosa con un fazzoletto pulito.
Claire è la giovane ereditiera di una villa ricolma di mobilia di prestigio e oggetti d’arte di cui decide di disfarsi, e su indicazione del padre, si rivolge al “migliore”, Virgil Oldman.
Tra i due il rapporto si preannuncia tumultuoso: Claire si nega, revoca il mandato poi ci ripensa, non si fa trovare poi rinnova gli appuntamenti; Oldman, troppo sussiegoso per scendere a compromessi, oscilla appresso alla cliente di converso, ma sempre più attirato dalla sua invisibilità, da quell’agorafobia all’ultimo stadio che la tiene lontana dal mondo, relegata da anni in una solitudine assoluta. Ma anche se  rescinderebbe volentieri il contratto cessando ogni rapporto con Claire, le cantine della sua villa rivelano a ogni sopralluogo oggetti, ingranaggi arrugginiti che nelle mani del giovane Robert prendono forma prospettando l’idea di avere a che fare con un antesignano settecentesco di un umanoide, un robot.
L’interesse per Claire cresce di pari passo al rinvenimento di sempre differenti ingranaggi arrugginiti, e nelle conversazioni tra Mister Oldman e  Robert prende a occupare sempre maggior interesse. La relazione tra Claire e Mister Oldman si approfondisce, i consigli di Robert sulla seduzione si rivelano preziosi, ma non tutto è ciò che appare.
Puntuale è Giuseppe Tornatore quando spiega, intervistato, di aver voluto raccontare una storia d’amore seguendo la struttura e i canoni narrativi del giallo, del thriller. La suspense domina l’intera vicenda come colta dal dettame di Hitchcok, in cui ogni piccolo particolare diviene simbolo correlato: come nel vecchio frammento di legno bruciacchiato che Oldman rinviene tra il ciarpame di un vecchio mobile si intravede a fatica un occhio – e sarà l’occhio di Claire che vedrà di sfuggita attraverso la parete dando adito a un nuovo alterco –, o quando lo stesso dipinto sarà ripulito e Oldman lo dichiarerà falso – come è falsa la tinta per capelli che l’inquadratura successiva riprende in primissimo piano, mentre il largo pennello sparge sulla sua capigliatura incanutita.
Il falso e il vero, quale porzione del primo risieda nel secondo sempre, intesse l’intera vicenda come dilemma filosofico portante.
Una vicenda fiabesca perché potrebbe avvenire ovunque: girata per lo più a Trieste, ha vetture targate Vienna; i personaggi ostentano nomi inglesi. Per qualificare il luogo della reclusione fisica di Claire e psicologica di Virgil Oldman, Tornatore ha scelto un non luogo, un luogo utopico che potrebbe essere ovunque. Un luogo il cui tempo oscilla tra personaggi contemporanei, immersi in un’aura settecentesca di interessi e oggetti, la cui somma, ancor prima che rendersi palese nei polverosi inventari in cui Oldman si cala tra mobilia di ogni specie, si rende vivida in quel laboratorio di Robert che ha della Wunderkammer il piacere barocco della Meraviglia, traboccante di congegni strani. Una Meraviglia non solo oggettuale ma intellettuale, fatta di saperi antichi e di dotta competenza di mondi nascosti ai più, ma Meraviglia anche intrinseca alla struttura stessa del film, che come detto, monta particolare con particolare in un ordito di significati, che diventano tali soltanto dopo esser stati simboli inerenti alla vicenda stessa: come il flute con monogramma in cui Oldman è solito bere al suo ristorante di fiducia, che miracolosamente compare tra le sue mani in un locale che è Robert a  frequentare, e sparisce quando la sua fobia prende a dileguarsi, a sciogliersi e Oldman pure si toglie i guanti e tocca con mano l’amore.
Vi si rinviene certa atmosfera surreale di Greenaway, la tessitura di Hitchcock e Brian De Palma, la strutturazione temporale interna alla fabula di Flaubert, in cui ogni oggetto rappresenta un segnale di inizio o fine di un segmento narrativo, di climax o anticlimax, la prospettiva di un cambio o di un colpo di scena. Ma certo si tratta di una sorta di bildungroman che per sottrazioni successive destruttura le caratteristiche dei personaggi, restituendoli alla propria umana genuinità, "guarendoli". Eppure come il falso si annida nel vero, è vero anche il contrario, come ogni falsario che si rispetti tradisce se stesso lasciando un’impronta di sé anche nel falso meglio riuscito, per rendere unico anche quell'oggetto copiato; così anche la nana sempre alla finestra del bar, impegnata sempre a dimostrare la sua impressionante bravura matematica con calcoli inarrivabili, appiana la sua lucida follia: non manda più a memoria operazioni complicatissime ma segna il climax del cambiamento con una sequela di antinomie matematiche, di paradossi logici più o meno conosciuti.
Virgil Oldman è calato in un paradosso, ritroverà se stesso soltanto perdendosi.

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