Pagine

venerdì 10 agosto 2012

La forza dei simboli, l’arroganza del Potere


Ho ripensato alla statua di Lenin abbandonata in un magazzino vuoto, forse un posteggio coperto di Soroca, nella Moldova di una quindicina d’anni fa, in cui le automobili si contavano ancora sulle dita. Mi aveva turbato la sua solitudine, come fosse cosa viva e lasciata in disparte; non fatta a pezzi e demolita sotto il maglio della rivalsa, divelta e atterrata nella foga della rabbia, ma semplicemente spostata. La Storia aveva spostato un regime, forse con minore fragore che altrove, con una eco meno enfatica, ma ora quella statua proprio dov’era non poteva rimanere. La Storia, e in un certo qual modo il popolo, avevano deciso diversamente, imponendosi sul passato, e il passato diventava ipso facto memoria museale.  Ho visto le fotografie che testimoniano l’operazione effettuata da Vincenzo Russo l’8 agosto: il pilone votivo in val Clarea senza immagini, snudato e imbragato, l’operaio al suo fianco in posa come il cacciatore accanto all’elefante accasciato sotto i colpi del suo personale safari. Era stato collocato da cristiani e laici la primavera del 2011 in val Clarea come luogo di incontro e di raccoglimento, un simbolo anch’esso della lotta NoTav, e già, sin dal febbraio di quest’anno, costretto entro le recinzioni che si erano spostate via via inglobandolo in quella terra di nessuno. Anche questo simbolo è stato spostato, divelto e spostato. Ma non è stata la Storia a spostarlo.

A ben vedere la posizione dove era collocato non pregiudicava le operazioni del non-cantiere, né poteva fornire una preoccupazione dal punto di vista del controllo militare. È stato spostato dalla volontà di colpire un simbolo di unità. Di piloni votivi se ne incontrano ogni dove, e la sensibilità che fa sorgere un interesse o rende attrattivo uno di essi dipende dalla religiosità di ciascuno, sicché il laico o l’ateo, il non cattolico può anche passarvi accanto senza quasi notarli. Ma questo pilone votivo aveva, ha, precisi riferimenti culturali che non possono lasciare indifferenti quanti l’hanno avvicinato, o l’hanno osservato anche solo da lontano, poggiato sul clive come una sentinella.
Alla guerra dichiarata alla terra si aggiunge la guerra di simboli, poiché appunto non rappresentava soltanto quel pilone un’occasione di raccoglimento e di preghiera per i credenti, ma l’unità stessa di un popolo che si raduna sotto la bandiera della lotta, poliedrico e multiforme. Un’unità che sgomita per trovare l’equilibrio e l’armonia, come è giusto che sia quando le differenze sono anche profonde; ma un’unità entro la quale le differenze, più che dividere, uniscono: e questo pilone rappresentava, rappresenta proprio questo.
Non è la Storia ad aver spostato, divelto e spostato questo pilone votivo: è l’arroganza del Potere che crede di tutto potere; la sufficienza dell’interesse senza scrupoli; la miopia di chi accetta supinamente un ordine, giustificandolo come atto ordinario di un ordinario lavoro, degradando in tal modo il senso stesso del “lavoro”. E parole come meschinità e infamia non si possono scrivere con l’iniziale maiuscola. Chi dichiara guerra ai simboli però dovrebbe sapere che, in quanto simboli, rimangono fantasmatici e sopravvivono alla concretezza di una rappresentazione fisica; persistono e si rafforzano.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.