A ben vedere la posizione dove era collocato non pregiudicava le operazioni del non-cantiere, né poteva fornire una preoccupazione dal punto di vista del controllo militare. È stato spostato dalla volontà di colpire un simbolo di unità. Di piloni votivi se ne incontrano ogni dove, e la sensibilità che fa sorgere un interesse o rende attrattivo uno di essi dipende dalla religiosità di ciascuno, sicché il laico o l’ateo, il non cattolico può anche passarvi accanto senza quasi notarli. Ma questo pilone votivo aveva, ha, precisi riferimenti culturali che non possono lasciare indifferenti quanti l’hanno avvicinato, o l’hanno osservato anche solo da lontano, poggiato sul clive come una sentinella.
Alla guerra dichiarata alla terra
si aggiunge la guerra di simboli, poiché appunto non rappresentava soltanto
quel pilone un’occasione di raccoglimento e di preghiera per i credenti, ma
l’unità stessa di un popolo che si raduna sotto la bandiera della lotta,
poliedrico e multiforme. Un’unità che sgomita per trovare l’equilibrio e
l’armonia, come è giusto che sia quando le differenze sono anche profonde; ma
un’unità entro la quale le differenze, più che dividere, uniscono: e questo
pilone rappresentava, rappresenta proprio questo.
Non è la Storia ad aver spostato,
divelto e spostato questo pilone votivo: è l’arroganza del Potere che crede di
tutto potere; la sufficienza dell’interesse senza scrupoli; la miopia di chi
accetta supinamente un ordine, giustificandolo come atto ordinario di un
ordinario lavoro, degradando in tal modo il senso stesso del “lavoro”. E parole
come meschinità e infamia non si possono scrivere con l’iniziale maiuscola. Chi
dichiara guerra ai simboli però dovrebbe sapere che, in quanto simboli,
rimangono fantasmatici e sopravvivono alla concretezza di una rappresentazione
fisica; persistono e si rafforzano.
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