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domenica 29 luglio 2012

Una marcia pacifica ma piena di rabbia




Da Giaglione a Chiomonte ancora una volta ad affermare che dietro i cattivi ci sono anche i buoni e che la Valle non molla.


Chiedere un passaggio sulla SS25 da Susa a Giglione legandosi la bandana NoTav al polso significa non aver il tempo per mettere poi un passo dietro l’altro e trovarsi direttamente seduto, stipato in una panda dove altri si stringono per farti posto. Sentimento di appartenenza. È il sentimento che ha condotto oggi 28 luglio 5000 persone (1000 per la Questura) attraverso i sentieri che innervano il costone da Giaglione a Chiomonte. Una marcia popolare, e per popolare vien da pensare a che cosa “popolare” significhi: il farmacista? L’anziano che si asciuga il sudore fermandosi di tanto in tanto? La giovane famiglia con la mamma che riassesta la bandana sul capo del bambino a protezione del sole? L’amministratore comunale che si lascia intervistare dalla televisione di Stato? La ragazzetta con sandali che scivolano di sotto la pianta dei piedi mentre le frana la riva di ricci e fogliame? Sicuramente tutto questo. Sicuramente altro. Significa un movimento che si conta e resta indiviso, impermeabile agli acquazzoni mediatici che invocano a ogni pié sospinto una spartizione di responsabilità e di converso una frattura tra “buoni” e “cattivi”. Il movimento ha molte facce, quella pacifica di oggi è una, e benché pacifica non dissimula il disagio e la rabbia. Lo fa in modo diverso, perché, una cosa sempre ribadita, è il movimento a determinare il livello del confronto.

Una marcia, quella odierna, parallela alla marcia del 30 luglio 2011, che avveniva all’indomani di cruenti scontri; allora come oggi il timore è che si innescasse una spirale pericolosamente deviata di provocazioni e di violenza che facesse degenerare una marcia pacifica in uno scontro impari. Il 30 luglio 2011 si passò davanti alle reti in silenzio, migliaia di persone passarono attorno al non-cantiere tuonando un silenzio palpabile, come cosa viva, come urlo prolungato e assordante. Ma gli espropri dovevano ancora avvenire, la baita era ancora un baluardo simbolo della lotta contro un treno e a favore di un sistema in cui parole come
Democrazia e dialogo avessero ancora un senso. Scoprire dunque oggi sentieri per i più sconosciuti che attraversano quello che fu un parco archeologico, attraverso boschi di castagni secolari, ma più in alto di quello che percorremmo allora, dà anche la dimensione di quanto in anno sia accaduto, di quanto la prossimità al cantiere significhi ormai scontro diretto e non manifestazione di dissenso, di quanto quelle reti, quei jersey, quel filo spinato abbiano ormai moltiplicato il valore simbolico di potere e di potenza: i compagni arrestati, gli espropri e le procedure d’urgenza, l’opposizione istituzionale radicalizzata , la sciagura di Luca, i blocchi delle autostrade. Sembra che ogni volta non sia un nuovo episodio ma la summa di tutto quanto è accaduto sino a quel momento. E la rabbia è tanta, anche in una marcia pacifica e sobria (qualche rimostranza verbale, qualche insulto non si può negare, esce dal cuore da chi ha un cuore che esplode nel momento in cui l’invettiva parte), lo è tanto più il sentiero che si sposta più a monte rispetto ai passaggi percorsi soltanto qualche mese fa e pare in diretto rapporto agli scontri recenti a cui fa da contraltare.
Si parla molto piemontese, e italiano certo, ma si sente parlare toscano e romanesco, inflessioni bergamasche e ragazzi che parlano in francese, in inglese, in tedesco, ma questo non vuol dire, come si impegnano a sottolineare i cronachisti – che si innalzano ad opinion makers – che la gente viene “da fuori”, come se al di fuori della Valle questa contesa scadesse di significato e d’importanza, significa che questa Valle è in Italia, è in Europa e che il Tav è sentito come problema finalmente italiano ed europeo, in quanto tale e in quanto simbolo di un’economia che non può procedere secondo i dettami di un mercato che si pretende libero e rimane incatenato a dettami che sono i frusti interessi di politica e lobby, imprese osmotiche attraversate sempre e soltanto dagli stessi nomi.
È stata una marcia pacifica allora? No. È stata una marcia piena di rabbia, ma di rabbia governata, gestita e tenuta a bada. E continuiamo a chiederci quale si possa chiamare violenza: l’imposizione di un territorio militarizzato, le continue prevaricazione protratte attraverso il pugno di ferro terroristico di posti di blocco e di minacce di sgombero al campeggio No Tav, o il tentativo di riappropriarsi di un territorio violato e calpestato, conquistato militarmente e vilipeso, danneggiato ormai per secoli?

Maverick









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