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martedì 21 febbraio 2012

Prime impressioni su György Ligeti




Iniziare l'ascolto di György Ligeti significa aprirsi alla sorpresa del suono e all'inattesa fragorosa cascata di armonie l'una nell'altra. György Ligeti, ungherese transilvano ed ebreo, era sopravvissuto al nazismo prima (perdendo padre e fratello ad Auschwitz) e sfuggito al regime comunista poi (una delle censure che subì fu per l'inserimento di un fa bemolle in un accordo che rendeva dissonante, e contrario al realismo socialista), infine naturalizzato austriaco. E' in Austria che conosce e frequenta Stockausen e König, la cui influenza lo conduce alla musica elettronica. Ma son cose che si possono leggere su Wikipedia con agio.

Ligeti insegna contrappunto, e come Béla Bartók assorbe quella cultura di confine che è la Transilvania, commistione di romeni, ungheresi, tedeschi (che i romeni chiamano svevi), rom ed ebrei, ruteni e slovacchi, bulgari. L'uno, Bartok, fonderà praticamente l'etnomusicologia, Ligeti andrà verso una musica contemporanea sempre più marcata e distinta. Parola e suono (mi ricorda le recenti composizioni di Goebbels che sembrano recuperare alla contemporaneità una rilettura dei Lieder romantici). Spesso parola e suono si fondono in Ligeti sino a sciogliere dalla parola il significato, lasciandone una forma senza sostanza, quand'anche non diventa invenzione vera e propria, asservita alla sua musicalità comunque. L'operazione che Ligeti compie sulla parola è la stessa che compie però sul suono. E parola e suono spezzano la continuità contrappuntistica della narrazione musicale. Il primo impatto spesso è che la pausa, il silenzio, si inserisca non come suono esso stesso, non come parte della tessitura ma come intermezzo provocatorio, veramente sospensivo. Eppure Ligeti non si pone fuori dal contrappunto, anzi, lo porta alle estreme conseguenze, tanto che spesso accade che quella stessa sospensione della pausa si assembli rincorrendosi sino alla sincope, senza con questo diminuire il senso d'attesa, in un tempo ridotto o ridottissimo (ridotto il tempo di una pausazione che incalza, incalza pure la sospensione che diviene pressante ma nondimeno attesa). Quella che Ligeti chiama "micropolifonia" è appunto questa cascata di armonie che si fondono l'una nell'altra, frantumando la narrazione in episodi, le impressioni in particolari, come accade nei suoi lavori da camera o le corali. Sembra allora che il singolo movimento potrebbe scindersi in definiti movimenti, cristallizzati tra pause e moltiplicati in successive esplosioni (Atmosphères , Apparitions ,Artikulation per esempio). Mi torna in mente J. Joyce che nell'Ulysses spoglia parola e sintassi per elevare a significato la simultaneità del pensiero e la sua moltiplicazione indefinita. Così è in alcuni lavori di Ligeti. Non si pone al di fuori del canone ma riesce a portare la narratività della sua musica a una tale frammentazione da produrre opere in cristalli, di cui non è il fluire a scorrere all'attenzione, ma ogni sigola sua parte e relazione di parti (suggestiva la compattezza di Volumina per esempio).
Le teorie sulla ricezione e sulla percezione ci hanno insegnato che si ascolta senza sentire tutti i suoni di una parola ma solo quelli iniziali e finali, così come la scansione ottica di un testo non distingue le parti centrali delle parole: estraiamo il significato da un amalgama semantico di senso. Ma nella musica di Ligeti i suoni non fluiscono amalgamandosi nella loro orchestralità, anche nella compiutezza della coralità assumono ciascuno carattere distintivo e spesso frammentario. Fondano una scena sull'atomizzazione del gesto. 

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