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sabato 12 aprile 2014

Solo chiacchiere, nani e ballerine


di Bruno Bongiovanni*

Gabriele Turi, La cultura delle destre. Alla ricerca dell'egemonia culturale in Italia, pp. 175, € 14, Bollati Boringhieri, Torino 2013

Dal bel libro di Turi si apprende che è stato lungo il cammino della cultura di destra. Lungo quanto la storia iniziata con l’unificazione degli spazi italiani e la nascita di un’Italia che si è trovata a percorrere tre fasi diverse (la liberale, la fascista, la repubblicana), tre fasi che si sono manifestate e si manifestano fortemente separate e nel contempo implacabilmente annodate l’una all’altra. È quindi impossibile, oggi più che mai, comprenderne una senza tenere conto delle altre. La cosiddetta cultura di destra, d’altra parte, non è unica e neppure unitaria. Vi è stato, e oggi si presenta in forma mutata (tanto che ci si può chiedere, con la scomparsa della monarchia e il dissolversi dell’aristocrazia, se esista ancora) il tradizionalismo castocratico e reazionario-elitario. Vi è poi stato, con vette intellettualmente alte, il conservatorismo, spesso liberalnazionale, ma disposto talora (non senza una virata suicida) alla complicità con una terza cultura, o anche incultura, di destra, quella connessa all’intermittente nazionalizzazione populistica – nel significato contemporaneo – delle masse. Quanto alla cultura di sinistra, o di centro (moderata e/o progressista), esse sono sì esistite (nell’Italia liberale e in quella repubblicana), ma risulta uno “stereotipo fuorviante” discorrere di egemonia di tali culture, pur giovatesi di personalità prestigiose così come di una feconda presenza nel mondo della scuola e di pezzi importanti del mondo editoriale e anche giornalistico.
È vero, la cultura di sinistra, in particolare quella segnata dalle spinte gramsciane, si è sovente posta e proposta l’egemonia come obiettivo, ma che questa egemonia sia esistita è stato ed è sostenuto soprattutto dalla cultura cronicamente cronistica della destra abilmente massificante, ma sempre incapace di produrre ed esibire personalità prestigiose. A questo proposito, si pensi ai quattro senatori a vita nominati nell’agosto 2013 da Napolitano nel suo secondo mandato. Appartengono al mondo della scienza e della professionalità artistica. Non a quello della politica. La destra, però, potente nell’ambito della ipnotizzante comunicazione televisiva di massa, e del tutto priva (anche da lontano) di personalità di tale prestigio internazionale, ha accusato Napolitano di avere effettuato nomine politiche e non culturali.
Tutto comincia per Turi con il vociare delle riviste del primo Novecento, con il nazionalismo, con l’interventismo e con i segmenti (non importa se riformisti o rivoluzionari) di un socialismo segnato da un coitus mai interruptus con il nazionalismo. È così che nasce, senza autonomia e originalità, il fascismo, il quale, giunto al potere, sarà un’organizzazione di massa e creerà l’Istituto nazionale fascista di cultura (1925), l’Enciclopedia italiana (1925) e l’Accademia d’Italia (1929). Le personalità culturalmente alte – Gentile, Volpe, Rocco – saranno raccolte, con il loro assenso e consenso, dal periodo precedente. Nessuno di tale levatura sarà prodotto dal fascismo stesso, ricco invece, in forma autoctona, di nani e ballerine, come il tardo craxismo e, psicologicamente sorto anch’esso negli anni ottanta, tutto il berlusconismo. Quando comunque ci fu la marcia su Roma, Gentile aveva 47 anni, Rocco 47, Volpe 46. La loro cultura era già stata costruita per intero in un’altra stagione. Non rinnegarono il loro passato, come Mussolini non rinnegò il suo socialismo, ma si adeguarono alla nuova stagione.
Givanni Gentile e Benito Mussolini mentre esaminano i primi volumi dell'Enciclopedia ItalianaIl fascismo, già polimorfo di per sé, fu sì abbattuto, ma cospicui frammenti di esso, in forma fantasmatica e mutevole, perdurarono nell’età repubblicana. Quest’ultima, poi, tra centrismo e centrosinistra, portò al miracolo economico e si avvalse di uomini di alta cultura e spesso provenienti da tempi lontani (si pensi a Croce e soprattutto a Luigi Einaudi), ma proseguì, con intenti pedagogici e cattomoraleggianti, nell’ampliamento del presenzialismo comunicativo di massa. Si rammenti la tv democristiana di Bernabei (1960-1974). Discontinuità e continuità ancora una volta procedettero affiancate. E la cultura coesisteva, e si arricchiva, a fianco della massificazione. Quest’ultima, tuttavia, a partire appunto dalla metà degli anni ottanta, progressivamente, dopo i colti anni sessanta e settanta di Berlinguer e Moro, si autonomizzò. E divenne la cultura di una destra senza cultura e anzi diffidente, sino a esserle avversaria, nei confronti della cultura. Con la fine del craxismo e dell’andreottismo non ci fu più bisogno della cultura. A partire dal 1994, e dal berlusconismo, con la prevalenza in ambito pubblico della chiacchiera sugli studi, ebbe inizio, nei settori che erano vicini alla politica, un processo di deculturalizzazione cui la sinistra democratica non seppe opporsi con risolutezza. Per molti versi tale processo non fu neppure prontamente compreso. Eppure, la deculturalizzazione fu, ed è, l’unica cultura della destra. Mussolini agguantò dal passato alcuni grandi come appunto Gentile, Volpe e Rocco. Berlusconi non ha neppure avuto bisogno di questo. Mediaset bastava.

B. Bongiovanni insegna storia contemporanea all’Università di Torino

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