Pagine

sabato 13 aprile 2013

Val Clarea. Prima passeggiata di primavera


La prima passeggiata in Clarea, tra le vigne, è avvenuta sotto i migliori auspici: la Primavera sembra esser arrivata con il suo saluto, senza far mancare un capriccio piovoso di metà aprile.
Una settantina di persone si sono radunate sotto le telecamere e le machine fotografiche di digos e carabinieri e si sono avviate lungo il sentiero che dalla Garavella, sopra la centrale elettrica di Chiomonte, conduce sino agli ingressi della Val Clarea, attraverso quello che rimane del parco archeologico devastato e recintato dalle forze dell’ordine.
Il sentiero si dipana tra i vigneti accuditi dai proprietari che meticolosamente si adoperano come qualunque vignaiuolo, con la sola differenza dei passaggi obbligati che in Valle ben si conoscono, fatti di check point  e controllo documenti. Nulla di paragonabile alla Striscia di Gaza naturalmente, soltanto una vaga eco che in rapporto la ricorda attraverso i chilometri di recinzioni, muri, jersey e fili spinati, Qualcosa che dovrebbe apparire normale se proprio non si è abituati a vivere nella Belfast degli anni Ottanta. Ma ci si abitua. O forse no. Forse c’è chi non si abitua a chilometri di muri cintati, jersey, posti di blocco, divise in assetto antisommossa, blindatti e camionette, Lince e Alpini con caschi e visiera, autoidranti. E si avventura in quella sorta di passeggiata che si riappropria a ogni passo di un territorio che non è un  protocollo timbrato e titolato “territorio di interesse strategico”, ma valle, valletta, vallone, torrente, fiume e sentiero. È gente che chiama ancora le cime per nome, le gole “gorge” e riconosce le pietre; passa accanto alle grotte abitate nel neolitico da progenitori che andranno riconosciuti nei libri di paleontologia, ma che anche senza testi di storia sentono vicini come cosa propria, perché accompagnano un passo dopo l’altro. È una sorta di geografia empirica, che riconosce pietra dopo pietra i propri luoghi per accertarsi che siano sempre i propri anche quando l’invasione ne strappa la storicità e l’interesse di pochi crede di prevalere sul diritto dei più. Questo sollecita qualche urlo che non è invettiva o insulto, ma soltanto un messaggio vero che travalichi il filo spinato e una divisa, due, forse nessuna.
Non fa notizia una battitura alle reti: un’ora, forse meno, in cui una quarantina di persone a turno sfianca le
braccia a battere con pietre le recinzioni per far chiasso e rompere il silenzio dei boschi, riempire quei boschi della rabbia che i boschi muti non han potuto far esplodere una volta divelti e devastati, spianati, cementati, irregimentati in muraglie e scale e sostegni e impalcature. La gente non vive a lungo quanto una pianta secolare sradicata, ma sa che essa ha memoria di chi passa e perché: rompere il silenzio dei boschi dà voce a quei boschi della immonda violenza che vi è perpetrata ogni giorno a discapito dei più e per l’interesse di pochi.

Ci sono folletti nei boschi, che chiamano le piante per nome.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.