La prima passeggiata in Clarea, tra le vigne, è avvenuta
sotto i migliori auspici: la Primavera sembra esser arrivata con il suo saluto,
senza far mancare un capriccio piovoso di metà aprile.
Una settantina di persone si sono radunate sotto le
telecamere e le machine fotografiche di digos e carabinieri e si sono avviate
lungo il sentiero che dalla Garavella, sopra la centrale elettrica di
Chiomonte, conduce sino agli ingressi della Val Clarea, attraverso quello che
rimane del parco archeologico devastato e recintato dalle forze dell’ordine.
Il
sentiero si dipana tra i vigneti accuditi dai proprietari che meticolosamente
si adoperano come qualunque vignaiuolo, con la sola differenza dei passaggi obbligati
che in Valle ben si conoscono, fatti di check point e controllo documenti. Nulla di paragonabile
alla Striscia di Gaza naturalmente, soltanto una vaga eco che in rapporto la
ricorda attraverso i chilometri di recinzioni, muri, jersey e fili spinati,
Qualcosa che dovrebbe apparire normale se proprio non si è abituati a vivere
nella Belfast degli anni Ottanta. Ma ci si abitua. O forse no. Forse c’è chi
non si abitua a chilometri di muri cintati, jersey, posti di blocco, divise in
assetto antisommossa, blindatti e camionette, Lince e Alpini con caschi e
visiera, autoidranti. E si avventura in quella sorta di passeggiata che si
riappropria a ogni passo di un territorio che non è un protocollo timbrato e titolato “territorio di
interesse strategico”, ma valle, valletta, vallone, torrente, fiume e sentiero.
È gente che chiama ancora le cime per nome, le gole “gorge” e riconosce le
pietre; passa accanto alle grotte abitate nel neolitico da progenitori che
andranno riconosciuti nei libri di paleontologia, ma che anche senza testi di
storia sentono vicini come cosa propria, perché accompagnano un passo dopo
l’altro. È una sorta di geografia empirica, che riconosce pietra dopo pietra i
propri luoghi per accertarsi che siano sempre i propri anche quando l’invasione
ne strappa la storicità e l’interesse di pochi crede di prevalere sul diritto
dei più. Questo sollecita qualche urlo che non è invettiva o insulto, ma
soltanto un messaggio vero che travalichi il filo spinato e una divisa, due,
forse nessuna.
Non fa notizia una battitura alle reti: un’ora, forse meno,
in cui una quarantina di persone a turno sfianca le
braccia a battere con
pietre le recinzioni per far chiasso e rompere il silenzio dei boschi, riempire
quei boschi della rabbia che i boschi muti non han potuto far esplodere una
volta divelti e devastati, spianati, cementati, irregimentati in muraglie e
scale e sostegni e impalcature. La gente non vive a lungo quanto una pianta
secolare sradicata, ma sa che essa ha memoria di chi passa e perché: rompere il
silenzio dei boschi dà voce a quei boschi della immonda violenza che vi è
perpetrata ogni giorno a discapito dei più e per l’interesse di pochi.
Ci sono folletti nei boschi, che chiamano le piante per
nome.
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