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domenica 3 febbraio 2013

La coscienza di Istanbul




La coscienza di Istanbul 

Orhan Pamuk e la città viva, specchio dell’uomo e del mondo 

di Carlo L. E. Pallard 



1. Orhan Pamuk: vita e opere 

Orhan Pamuk, senza dubbio l’autore turco meglio conosciuto e apprezzato nel mondo, è uno dei più importanti scrittori contemporanei. 
La vita e l’opera di Pamuk sono legate indissolubilmente ad Istanbul, la città dove è nato il 7 giugno del 1952 e dove ha trascorso gran parte della propria esistenza, osservando il Bosforo dalla vecchia casa di famiglia nel quartiere borghese di Nişantaşı. Il grande attaccamento a tali luoghi, accompagnato da una certa tendenza all’autobiografia, è una spiccata caratteristica di questo autore. 
Pamuk, dopo alcuni esperimenti letterari giovanili, fa il suo vero e proprio esordio come romanziere nel 1982, con la pubblicazione de Il signor Cevdet e i suoi figli (Cevdet Bey ve Oğulları), seguito con appena un anno di distanza da La casa del silenzio (Sessiz Ev, 1983). Nel 1985 è Il castello bianco (Beyaz Kale) a chiudere l’attività di Pamuk negli anni ’80.
Se Il signor Cevdet e i suoi figli, saga familiare ambientata nei primi decenni della Turchia repubblicana, è ancora legato al realismo allora dominante nella letteratura turca, con La casa del silenzio e soprattutto con Il castello bianco, Pamuk vira decisamente stile in senso postmoderno, ponendosi come avanguardia in un paese che, eccezion fatta per il pur notevole e sottovaluto contributo di Oğuz Atay1, è piuttosto refrattario ad assorbire le tendenze letterarie più innovative. 
I tre romanzi, pubblicati in un brevissimo arco di tempo, ottengono un grande apprezzamento in Turchia, tanto che lo stesso Yaşar Kemal2, il più importante scrittore turco del XX secolo, esprime pubblicamente la propria ammirazione per il lavoro del giovane collega3
Nonostante il trionfo in patria, Pamuk viene ignorato a livello internazionale per tutti gli anni ’80: significativo il fatto che nessuna delle sue opere venga tradotta in inglese nel corso del decennio. 

Il 1990 vede Pamuk tornare sulla scena con l’ambizioso Il libro nero (Kara Kitap), romanzo complicatissimo e caratterizzato da uno sperimentalismo narrativo con cui l’autore spera di accattivarsi le simpatie della critica internazionale. Il libro nero si rivela subito un caso letterario in Turchia: se da una parte il romanzo costituisce un’indiscutibile novità per la letteratura di quel paese, riducendo le distanze che la separano dalle avanguardie internazionali, dall’altra lo stesso lavoro viene spesso tacciato, e non sempre a torto, di avere una prosa farraginosa e ridondante sul piano stilistico, e di peccare di intellettualismo fine a se stesso a livello dei contenuti. 
L’obiettivo dello scrittore è comunque raggiunto: Il libro nero è il suo primo lavoro ad essere tradotto in inglese, aprendo la medesima strada alle opere del decennio precedente. Ormai Pamuk attira l’interesse della critica e del pubblico anglosassoni, come testimoniano la recensione entusiasta dell’edizione inglese de Il castello bianco da parte del New York Times Book Review4,e l’assegnazione nello stesso anno del prestigioso Indipendent Award for Foreign Fiction. 
A distanza di cinque anni La nuova vita (Yeni Hayat, 1995), caratterizzato all’incirca dai medesimi pregi e difetti del suo predecessore, è una conferma di quanto fatto dallo scrittore turco fino a quel momento. 

La svolta che ne sancisce la definitiva consacrazione internazionale arriva a cavallo del millennio, grazie all’enorme successo de Il mio nome è Rosso (Benim Adım Kırmızı, 1998), romanzo storico dalla struttura narrativa intricata e originale che, attraverso le tragiche vicende di un gruppo di miniaturisti del XVI secolo, dipinge un ricchissimo affresco – estremamente dotto e a tratti quasi saggistico – dell’incontro degli ottomani con la cultura occidentale. 
Il salto di qualità è evidente sotto ogni punto di vista. Il mio nome è Rosso è un libro che ha il raro privilegio di essere considerato un classico già dal momento della pubblicazione. Nei tre anni successivi il romanzo viene tradotto in tutte le principali lingue del mondo, mentre al successo di pubblico fa eco l’entusiasmo pressoché unanime della critica. Da questo momento Orhan Pamuk è considerato un serio contendente per vincere il Premio Nobel. 
Infatti già nel 2002, quando il fenomeno letterario de Il mio nome è Rosso è ancora nel pieno della sua forza, la conferma ad altissimo livello arriva con la pubblicazione di Neve (Kar), in cui per la prima volta Pamuk ambienta la storia lontano dalla sua città natale per affrontare con estrema puntualità il tema scottante del fondamentalismo islamico. Neve rappresenta una lettura del fenomeno originale e lontana da ogni stereotipo, preziosa soprattutto per il disorientato pubblico occidentale, spesso fuorviato da opere che hanno trattato lo stesso argomento con uno spessore intellettuale sicuramente inferiore. 

Nel periodo successivo al travolgente successo de Il mio nome è Rosso e di Neve, quando è ormai considerato un intellettuale di riferimento sulla scena internazionale, il nostro autore si dedica in modo particolare alla pubblicazione di saggi e memorie, abbandonando la finzione narrativa per esprimere direttamente le proprie opinioni sulle più svariate tematiche. Tra la nutrita produzione di non fictional works spicca Istanbul (İstanbul. Hatırlar ve Şehir) del 2003, che proietta definitivamente il suo autore verso l’attribuzione del Premio Nobel per la letteratura nel 2006. 
Nel 2008 Pamuk torna alla narrativa con Il museo dell’innocenza (Masumiyet Müzesi), allo stato attuale ultimo romanzo dello scrittore di Istanbul. 
Nel 2010, a conferma del suo ruolo di intellettuale impegnato e militante in favore della causa europeista, è co-fondatore insieme all’amico José Saramago5 del Parlamento europeo degli scrittori. 
Se Orhan Pamuk è una figura generalmente stimata e popolare nel mondo, non si può dire che in patria la situazione sia oggi del tutto analoga. Benché non manchino nel paese della mezzaluna estimatori del locale premio Nobel, ci sono molti fattori che rendono la Turchia generalmente non molto ben disposta nei confronti dello scrittore. Nel particolare sistema di «democrazia limitata» tipico della Turchia uscita dal colpo di stato del 1980 – e che solo negli ultimi anni ha cominciato ad essere messo seriamente in discussione – Pamuk ha avuto più di un problema con la legge turca: la prima volta nel 1995, per via di alcune affermazioni che criticavano l’atteggiamento dello stato turco nei confronti della minoranza curda, successivamente a causa di un’intervista rilasciata ad un giornale svizzero nel 2005, in cui si faceva riferimento ai massacri di civili curdi e soprattutto armeni durante la prima guerra mondiale6

Se da una parte le vicende giudiziarie non hanno fatto che aumentare la popolarità internazionale di Pamuk, non pochi turchi hanno accusato lo scrittore di fare un utilizzo consapevolmente mediatico delle diatribe legali che l’hanno visto coinvolto, al fine di costruirsi un’immagine di intellettuale impegnato e scomodo, e che il premio Nobel gli sia stato assegnato grazie a questa presunta strategia sensazionalista piuttosto che per reali meriti letterari7
Nei severi giudizi di molti connazionali si possono ravvisare anche motivazioni più schiettamente letterarie. Come abbiamo visto, Pamuk ha scelto uno stile molto distante dal realismo amato in Turchia. Il fatto che non si sia mai dimostrato particolarmente rispettoso verso questa tradizione, e che l’abbia anzi utilizzata come riferimento negativo e polemico8, non ha sicuramente giovato alla sua popolarità presso critica e pubblico. 
Va infine sottolineato come il complicato rapporto con la madrepatria in realtà non sia stato costante. Come abbiamo visto, l’approdo di Orhan Pamuk alla ribalta internazionale è stato reso possibile dal grande successo di critica e pubblico che i suoi romanzi hanno avuto in Turchia negli anni ’80 e nei primi anni ’90. Paradossalmente l’idillio tra lo scrittore e il proprio paese si è incrinato proprio nel momento dell’esplosione a livello mondiale del «fenomeno Pamuk» al principio del nuovo secolo. Le dichiarazioni rilasciate a proposito della questione curda e di quella armena, nettamente in contrasto con la percezione comune dell’opinione pubblica turca – unite al sospetto di aver «venduto il paese», cioè che il riconoscimento internazionale e l’assegnazione del premio Nobel siano derivati soprattutto da queste prese di posizione – hanno sicuramente avuto un peso non irrilevante, ma ad avviso di chi scrive il discorso non può essere così ridotto. 
La visione di Istanbul e della Turchia, così come emerge dai testi di Pamuk, ed in particolare da quelli dell’ultimo decennio come Neve, Istanbul e Il museo dell’innocenza, è estremamente problematica e non sempre lusinghiera, con l’esplicito obiettivo di mettere in luce tabù e contraddizioni della nazione. In questo senso, il fatto che la sua figura e le sue opere siano in grado di dividere ed accendere gli animi, non può che rappresentare un successo per lo scrittore turco, dimostrandone la capacità di contribuire positivamente allo sviluppo della discussione democratica su molti temi appartenenti al passato e al presente del paese.

2. L’Istanbul di Orhan Pamuk: una città viva

«Nella ricerca dell’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare lo scontro e l’interrelazione tra le diverse culture»9: questa la motivazione dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Orhan Pamuk nel 2006. Il rapporto viscerale che lo lega alla sua città, per certi versi paragonabile a quello di James Joyce a Dublino, è forse la cifra più originale e rilevante dell’opera di Pamuk. In effetti tutti i suoi romanzi, con l’unica eccezione di Neve, sono ambientati ad Istanbul, straordinario palcoscenico di un’umanità che risulta vera proprio nella misura in cui interagisce con la realtà della città, per nulla idealizzata e pure a suo modo così sublime. 

Tuttavia l’Istanbul di Pamuk non rappresenta solamente una notevole capacità di descrivere luoghi ed usarli come scenario per le vicende narrate, ma qualcosa di molto più profondo, cioè un’idea originale del concetto stesso di città. 
Nella prospettiva del nostro autore una città non coincide con la descrizione estetica e fisica dei luoghi, e neppure con le vite dei suoi abitanti del presente e del passato, ma va oltre, ponendosi come entità viva ed autonoma, dotata di una propria personalità, di una propria coscienza e di una propria memoria storica. 
Questa idea, implicitamente presente in quasi tutti i romanzi del Nobel turco, è trattata in modo esplicito e sistematico in Istanbul, come abbiamo visto non un’opera di narrativa, ma da considerarsi una pietra miliare proprio perché sintetizza la concezione della realtà – qui non mi parrebbe peregrino prendere in prestito il concetto filosofico di Weltanschauung – che sta alla base dell’opera di Pamuk considerata nel suo insieme. 
Nel capitolo intitolato Tristezza10 l’autore, per spiegare il particolare carattere su cui si fonda l’identità di Istanbul, ricorre al concetto di hüzün, sulla cui etimologia è necessario soffermarsi brevemente. Hüzün non è in realtà un termine autoctono, ma di origine araba e coranica. Nel testo sacro dell’Islam questa parola sta ad indicare lo stato d’animo determinato da una grave perdita spirituale e dal distacco irreversibile da una persona amata, come nel caso della morte di Hatice, moglie di Maometto. Il concetto è stato ripreso nella filosofia Sufi – la quale ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione della cultura turca – per indicare l’emozione generata dalla consapevolezza dell’incolmabile distanza tra l’uomo e Dio. Tale sentimento è tuttavia estremamente positivo, poiché è visto come una condizione esistenziale necessaria per intraprendere il cammino mistico di riavvicinamento alla divinità. 
È così giunto in eredità alla lingua turca moderna un termine che porta con sé, come si può intuire, un’intrinseca ambiguità: se da una parte ha un significato negativo, legato al dolore, alla mancanza e all’afflizione – all’incirca coincidente con la nostra traduzione più semplice e naturale, cioè tristezza – dall’altra ne porta con sé uno diverso e positivo, relativo all’ambito del sacro, del poetico e del mistico. In questa seconda accezione, il significato di hüzün può essere in parte accostato all’idea romantica del sublime. Non ci si può dunque stupire del ruolo del tutto eccezionale, non riscontrabile in alcun altro paese al mondo, che il concetto di tristezza riveste ad Istanbul e generalmente in Turchia, influenzando tanto le arti – si pensi alla poesia e alla musica – quanto la mentalità delle persone comuni. 

L’autore non si ferma però al dato semantico, ma investe il termine hüzün di ulteriori e peculiari significati. La tristezza di cui parla Pamuk non è infatti il sentimento personale che un individuo può sperimentare in determinate circostanze, ma l’essenza stessa di Istanbul, lo scheletro attorno a cui si strutturano la coscienza e la personalità dell’antica capitale ottomana. Questa essenza non è legata necessariamente a nessun particolare luogo o oggetto presente ad Istanbul, ma permea di sé ogni elemento della città, dai monumenti alle vie dei quartieri, fino alle persone che la abitano. 
Al carattere «triste» di Istanbul è inevitabile associare il tema della memoria. Bisanzio, Nuova Roma, Costantinopoli, Istanbul: città dai mille nomi, essa fu concepita per essere al centro del mondo, e per quasi due millenni, se non lo è stata per davvero, ci è mancato pochissimo perché lo fosse. Sede di civiltà di portata universale come quella bizantina e quella ottomana, Istanbul ha giocato un ruolo speciale nella storia dell’umanità. 
Una storia gloriosa come nessun’altra dunque, ma anche piena di ferite e lacerazioni. Come la fine violenta dell’impero bizantino e il sorgere della potenza ottomana, che ne riprendeva tuttavia la medesima idea imperiale sotto i vessilli di una nuova dinastia e di una diversa religione. 
Ma la ferita più profonda, lo shock più grave, l’umiliazione più atroce, è storia relativamente recente per la città millenaria: la lenta agonia e la fine dell’impero ottomano. Dopo quasi duemila anni Istanbul non era più la capitale di un impero. Il mondo ottomano, con il suo caratteristico cosmopolitismo, spariva per lasciare spazio ad uno stato nazionale turco, con conseguenze drammatiche per l’identità dell’antica città, sconvolta da cambiamenti demografici senza precedenti11. Come se non bastasse, il nuovo potere repubblicano, per sottolineare la cesura con il passato, poneva la sua capitale ad Ankara. 
Istanbul ancora una volta vedeva l’affermazione di una nuova grande civiltà universale, quella dell’Occidente moderno. Ma questa volta le cose erano diverse. La città sul Bosforo non era più la splendida capitale, ma la misera e decadente periferia di un mondo che aveva i suoi centri in luoghi lontani, oggetto di imitazione e meta di emigrazione da parte dei suoi abitanti. L’antica Costantinopoli, costruita con la missione di dominare il globo, era di fatto ridotta al rango di città di provincia, per quanto bellissima e immensa. 
È quindi possibile, tenendo presente quanto detto fin’ora, capire di quale tipo di memoria storica Istanbul sia portatrice e come questo abbia contribuito a forgiarne il carattere. 
La città possiede dunque una propria memoria, distinta e irriducibile rispetto a quella delle singole persone che vi abitano, ma in grado di manifestarsi in ogni luogo, non solo tra i grandi monumenti e i viali imperiali di Sultanahmet o di Beyoğlu, ma persino negli angoli più remoti e impensabili dei quartieri popolari in rovina. Gli abitanti di Istanbul possono essere relativamente ignari della storia della loro città, o addirittura allontanare appositamente il ricordo del passato ottomano – nella Turchia repubblica in certe circostanze quest'ultimo si è trasformato in un vero e proprio tabù – ma non possono sottrarsi all’esperienza del peso di questa memoria onnipresente. 
La concezione comune, secondo cui il carattere di una città è dato dalle abitudini e dalla cultura della comunità che vi risiede, è qui completamente ribaltata: è la città che, con la sua ingombrante personalità forgiata in duemila anni di storia, detta ritmi e stili di vita e determina la mentalità e il modo di essere dei suoi abitanti. 
L’Istanbul di Orhan Pamuk è dunque una città intesa come essere vivente, dotata di un’identità – si potrebbe quasi dire un’anima – inalienabile e permanente al di là dell’esistenza effimera di chi vi è nato e morto nel corso dei secoli.

3. La città protagonista 

Esaminando i romanzi di Pamuk, è possibile notare come i personaggi principali non siano mai caratterizzati da una personalità forte, e riescano molto di rado a dare agli eventi il corso desiderato. In questo senso, l’opera dello scrittore turco si può definire come un unico grande romanzo dell’incapacità e della solitudine. I personaggi principali sono quasi tutti degli inetti, inadatti alle sfide anche più banali che la vita riserva loro, e finiscono quasi sempre con l’essere sconfitti. Sono anche terribilmente soli: a questo proposito mi pare emblematico l’esempio de Il castello bianco, romanzo surreale dove i due protagonisti sono in realtà la stessa persona, condannata quindi a vivere un’eterna solitudine dove l’unico possibile dialogo è con se stessi. Incapaci di avere rapporti 
sani e costruttivi con le altre persone, i personaggi di Pamuk sono destinati a vivere relazioni d’amore a senso unico che si concludono spesso in modo drammatico. 

L’archetipo ideale di questo caleidoscopio di antieroi è forse Kemal Basmacı, protagonista de Il museo dell’innocenza, ma quanto detto non vale di certo solo per lui. 
L’unica notevole eccezione, Il mio nome è Rosso, non deve trarre in inganno. Nero, intento ad indagare sugli omicidi che sconvolgono l’ambiente dei miniaturisti del palazzo imperiale, si dimostra in tutto il romanzo un pessimo investigatore e rivela una preoccupante tendenza a farsi usare e menare per il naso dagli altri personaggi, in particolare dalla bella e subdola Şeküre, di cui è innamorato. Alle fine Nero riesce a portare a termine con successo le indagini e a realizzare il sogno d’amore con la donna dei suoi desideri, ma questo avviene più come conseguenza di eventi fortuiti che in virtù delle sue capacità. 

Nella conclusione del romanzo, è proprio l’anziana Şeküre – ormai rimasta vedova di Nero – ad informarci che il defunto marito, una volta raggiunto l’obiettivo della propria esistenza, invece di abbandonarsi alla felicità tanto attesa, ha trascorso una vita tutto sommato incolore e segnata da una certa malinconia e disillusione12. Mi pare perciò giusto affermare che, anche in questo rarissimo caso di lieto fine, non si esca dalla spirale dell’incapacità e della solitudine. 
All’assenza di veri e propri protagonisti – almeno nell’accezione del termine così come è concepito dalla narrativa tradizionale – generalmente corrisponde allo stesso modo l’assenza di un io narrativo forte. In alcuni casi (La casa del silenzio, Il mio nome è Rosso) l’autore opta per una narrazione corale, dove i vari personaggi si alternano nella funzione di narratori nel corso dei capitoli, mentre in altri (Neve, Il museo dell’innocenza) egli rivela direttamente la finzione letteraria, ma in un modo originale, cioè ponendo se stesso come personaggio in qualità di autore del testo, ma anche amico e confidente dei protagonisti. Ovviamente si tratta di un’altra parziale invenzione, per cui ci ritroviamo davanti a una piccola matrioska di piani narrativi. 
Un’altra particolarità del mondo costruito da Pamuk è la costante presenza di riferimenti incrociati tra i diversi romanzi, così come tra questi e la realtà biografica dell’autore. Faruk Darvínoğlu, uno dei personaggi principali de La casa del silenzio, è anche lo scopritore del manoscritto seicentesco che, in modo un po’ manzoniano, ispirerebbe la stesura de Il castello bianco. In Neve si accenna all’idea del personaggio-autore Orhan Pamuk di scrivere un romanzo intitolato Il museo dell’innocenza13. Quest’ultimo è poi una vera e propria rassegna di riferimenti ai personaggi degli altri testi del suo autore, soprattutto durante la festa di fidanzamento tra Kemal e Sibel14, e nell’epilogo con la consueta comparsa dello stesso Pamuk come personaggio del romanzo15
L’ambientazione cinquecentesca de Il mio nome è Rosso, che sembrerebbe tirarsi perciò fuori da qualsiasi possibile riferimento autobiografico, è ancora una volta ingannevole. Nelle ultimissime pagine, con l’ennesimo trucco metanarrativo, Pamuk ci fa sapere che il vero autore del libro – che fino a quel momento sembrava il frutto di un racconto corale da parte dei protagonisti – non è che Orhan, figlio di primo letto di Şeküre. Questo Orhan ha anche un fratello chiamato Şevket, come il fratello reale dell’autore16, con il quale intrattiene – come nella realtà della famiglia Pamuk17 – un rapporto difficile basato sulla competizione per l’affetto della madre. Se a tutto questo aggiungiamo che la madre dei fratelli Pamuk nel mondo reale si chiama effettivamente Şeküre, credo ci si possa fare un’idea di quanto l’elemento autobiografico sia onnipresente nelle opere del nostro scrittore, persino nei contesti più impensabili. 
L’autore non si limita ad utilizzare se stesso come personaggio letterario in alcuni romanzi, ma inserisce elementi della propria personalità anche in altri modi. Molto spesso c’è una parziale identificazione tra Pamuk e i protagonisti di alcuni lavori. Confrontando così il contenuto delle opere di narrativa con l’autobiografia Istanbul, possiamo per esempio notare molti tratti che accomunano l’autore con il poeta Kerim Alakuşoğlu soprannominato Ka, protagonista di Neve, così come il già citato Kemal Basmacı ne Il museo dell’innocenza. Certo, non si tratta di un’identificazione totale: Ka è pur sempre un poeta fallito che trascorre un’esistenza scialba in uno squallido appartamento di Francoforte, mentre Pamuk è un premio Nobel per la letteratura, amato e stimato in tutto il mondo. Forse è per questo motivo che, proprio nelle due opere citate, lo scrittore introduce se stesso come personaggio letterario, come a voler avvertire il lettore che il contenuto del romanzo non è (del tutto) autobiografico, e il protagonista non coincide con l’autore. 
Eppure Pamuk sembra consapevole del fatto che egli e i suoi personaggi siano sostanzialmente simili, e che a determinare successi e insuccessi siano in fondo situazioni contingenti e quasi effimere rispetto al piano esistenziale esplorato nei suoi romanzi. La prospettiva deve quindi allargarsi per comprendere la più vasta realtà del mondo in cui i personaggi si trovano gettati. 
Siamo ora arrivati ad uno dei nodi cruciali dell’interpretazione dell’opera di Pamuk qui proposta: Nero, Kemal o Faruk non sono i veri protagonisti dei loro romanzi, così come l’autore stesso non è in realtà protagonista dell’autobiografia Istanbul
È proprio il titolo assolutamente illuminante di quest’opera a fornirci un’interessante chiave di lettura per comprendere il mondo di Orhan Pamuk. Mettendo in pratica nei suoi romanzi quello che l’autore ha teorizzato in Istanbul, è la città sul Bosforo, ad una lettura superficiale semplice ambientazione, la vera protagonista di quasi tutte le opere dello scrittore turco. 
Alla scarsa forza di volontà dei personaggi si contrappone la personalità forte della città. I romanzi ambientati ad Istanbul non potrebbero avere senso calati in un altro contesto, a partire dalla semplice trama. Se la Costantinopoli imperiale non fosse stata il centro della civiltà ottomana – e quindi del potere che ne era espressione tangibile – le storie raccontante ne Il castello bianco e Il mio nome è rosso non sarebbero neppure concepibili, e al di fuori del complicato contesto culturale e sociale dell’odierna Istanbul, non lo sarebbero neanche i romanzi con ambientazione contemporanea. 

Neppure Neve, unica opera di Pamuk ambientata lontano da Istanbul, si sottrae del tutto allo schema sopra delineato. La storia qui raccontata si svolge a Kars (da cui anche un certo gioco di parole con kar, che in turco significa appunto neve ed è il titolo originale dell’opera), città di provincia nell’estremo est della Turchia, a ridosso del confine con la Georgia. Tuttavia le origini del protagonista, borghese di Istanbul e non per caso proveniente dallo stesso quartiere di Orhan Pamuk18 , hanno un ruolo estremamente rilevante nella percezione della realtà profondamente diversa in cui si svolge il romanzo.

Il protagonismo della città si manifesta ancora più fortemente nei lavori caratterizzati da una narrazione corale, come La casa del silenzio e Il mio nome è Rosso, in cui troviamo narratori differenti per posizioni ideologiche, estrazione sociale e religione, ma che proprio per questo sono in grado di fornire un affresco completo di Istanbul, diluendo l’io narrativo fino ad abbracciare un’intera civiltà in una determinata epoca storica. 
Istanbul, che possiamo immaginare come un prisma di cui le singole voci narranti sono le facce, è quindi il vero grande narratore di questi romanzi. 
Se teniamo infine presente che in Pamuk l’aspetto centrale non è tanto lo svolgimento della storia intesa come una serie di eventi, quanto il dispiegarsi della coscienza interiore ed intangibile dei protagonisti, è facile rendersi conto di come entri qui fortemente in gioco il discorso prima affrontato, relativo al rapporto tra la città e i suoi abitanti. 
Istanbul determina soprattutto, e in modo pressoché assoluto, la situazione psicologica ed emozionale dei personaggi di Pamuk. Il carattere della città non può quindi essere ridotto a un’atmosfera o a una serie di situazioni contingenti – che pure hanno un loro peso nella narrazione 
– ma si configura come una vera e propria condizione esistenziale. 
In modo particolare è il concetto già discusso di hüzün/tristezza a dare un significato autentico alle storie dei protagonisti, a renderle degne di essere raccontate. Il valore positivo o comunque ambiguo che la tristezza in quanto tale riveste nel contesto culturale di Istanbul nobilita e rende quasi epiche le tragedie umane, di per se spesso misere, squallide e patologiche, che Pamuk mette in scena nei suoi romanzi, fino a trasformare la sofferenza e la solitudine quasi nel loro contrario, come una forma sui generis di felicità.

È così che Kemal Basmacı, inetto su tutti gli inetti, sconfitto dalla vita come nessun altro, dopo aver trascorso un’esistenza estremamente drammatica e per molti versi assurda, si congeda dal lettore con una frase che lascia scioccati se non si tiene presente che la storia si è svolta ad Istanbul: «Tutti devono saperlo: ho avuto una vita felice»19 .

4. La città e il mondo 

Anche se le storie raccontate da Pamuk sono, come ho tentato di spiegare, indissolubilmente legate alla città in cui si svolgono, le tematiche che esse affrontano sono universali. L’ambizione, la ricerca della felicità, la disillusione, il rapporto tra i sessi, la solitudine, l’amore e la morte: non si tratta soltanto degli argomenti tradizionalmente preferiti dagli scrittori, ma di esperienze comuni a tutti gli esseri umani in ogni epoca storica. 
Istanbul è quindi, prima di ogni altra cosa, uno specchio dell’uomo e del mondo, che proprio incarnandosi in un particolare – come particolare è la vita di ognuno di noi – diventa rappresentazione dell’altrimenti indicibile universalità dell’esperienza umana. 
Pamuk riesce a gestire questo gioco di prospettive tra l’universale e il particolare insistendo sull’eccezionalità del caso di Istanbul, città che per molte ragioni – la posizione geografica, le diverse civiltà che ne hanno segnato la storia e la cultura, gli scambi che ha intrattenuto nel corso dei secoli con i più diversi paesi, e soprattutto il ruolo di centro imperiale che ha rivestito per secoli 
– ha avuto un ruolo speciale nella storia dell’umanità. 
Punto di incontro ideale tra Oriente ed Occidente, il Bosforo apre prospettive che per un verso rendono orgoglioso lo scrittore per il ruolo della sua città, ma per un altro lo inquietano e lo turbano profondamente. Da una parte c’è l’immagine di una capitale imperiale vincente, centro di una civiltà in grado come nessun’altra di sintetizzare nella sua cultura aspetti orientali e occidentali (Ad Allah appartengono Oriente ed Occidente, recita una Sura coranica posta in esergo a Il mio nome è Rosso20, e questa frase potrebbe essere assunta come sintesi di tutta la civiltà ottomana). Dall’altra parte c’è però la realtà di una nazione al confine tra due mondi che vengono oggi rappresentati come in conflitto tra di loro, costretta per il suo semplice fatto di trovarsi sul confine ad essere «periferia» di entrambi i mondi. 
Alla paura di essere periferici e marginali si associa la relazione ambigua che Pamuk intrattiene con la cultura occidentale e con la rivoluzione kemalista che l'ha definitivamente imposta in Turchia. Lo scrittore avverte la necessità di integrarsi appieno nella civiltà europea, ma dall’altra sente la paura di sentirsi giudicato inadatto e venirne escluso, o al contrario di esserne assimilato a tal punto da perdere del tutto la propria identità nazionale e locale. La situazione della Turchia come paese «tra Oriente e Occidente», perfettamente esemplificato dalla posizione geografica di Istanbul, viene vissuta in modo problematico e spesso angoscioso da Pamuk, diviso tra la speranza e la paura, tra l’orgoglio e la sensazione di inadeguatezza. 
In un’intervista rilasciata ad Euronews21 , lo scrittore sottolinea come il problema dell’identità, centrale non solo nei suoi romanzi, ma in tutto il discorso pubblico e intellettuale nel mondo a noi contemporaneo, non è assolutamente una novità per la Turchia, che proprio in virtù della particolare eredità lasciatale dalla geografia e dalla storia, da molto tempo si interroga a più livelli su questo importante tema. Il confronto tra Oriente e Occidente, la possibilità di far convivere Islam con la democrazia e con la cultura dei paesi europei, il destino dei rapporti tra le diverse civiltà: se la Turchia non è riuscita a dare risposte definitive a questi dilemmi, certamente ha un’esperienza di riflessione superiore a qualunque altro paese, e per questo ha molto da insegnare al resto d’Europa. 
Ecco allora che Istanbul diventa una grande metafora del mondo contemporaneo, e nella visione di Pamuk ritorna ad essere centrale come simbolo dello scontro e della sintesi delle diverse componenti della nostra era globalizzata. 
Pamuk non si limita dunque a raccontare e descrivere un luogo eccezionale e le storie dei suoi abitanti, ma ha la pretesa di trasformare la sua città natale in uno specchio dell’uomo e del mondo, dove l’umanità odierna possa riconoscersi e riflettere su se stessa e sul proprio destino. A chi scrive sembra che egli sia riuscito nel suo intento. 


NOTE
1Oğuz Atay (1934 – 1977), scrittore conosciuto soprattutto grazie al romanzo Tutunamayanlar (letteralmente Gli incapaci di connettersi, 1972). Considerato dalla critica come uno dei capolavori della letteratura d’avanguardia del XX secolo, Tutunamayanlar non è tuttavia stato ancora tradotto in nessuna lingua a causa dell’estrema difficoltà del testo originale. Un esempio della prosa di Atay reperibile in italiano è la raccolta di racconti Korkuyu Beklerken pubblicato recentemente in Italia con il titolo di Aspettando la paura (Lunargento, 2011). 
2 Kemal Sadık Gökçeli (n. 1923), noto con lo pseudonimo di Yaşar Kemal (spesso traslitterato come Yashar Kemal), è uno dei più importanti scrittori del realismo novecentesco e il principale alfiere delle lettere e della cultura turca nell’ultimo secolo. Candidato più volte al Premio Nobel e considerato quasi un eroe nazionale, Kemal è autore di opere come la saga di İnce Memed (letteralemente Memed il sottile, ma tradotto in italiano come Memed il falco) e la Trilogia della montagna, riconosciute come capolavori in ambito internazionale e oggetto di vero e proprio culto in patria. 
3 Intervista rilasciata allo scrittore e critico letterario italiano Mario Biondi nel 1987: http://www.mariobiondiscrittore.it/Scritti/Giornalismo/Grandi_scrittori/Kemal/kemal.html 
4 J. Parini, «Pirates, Pashas and the Imperial Astrologer», The New York Times Book Review, 19 maggio 1991. 
5 José Saramago (1922 -2010), premio Nobel per la letteratura nel 1998, è stato uno degli scrittori più 
prestigiosi e conosciuti nella seconda metà del ‘900. Ideatore con l’amico Orhan Pamuk del Parlamento 
europeo degli scrittori, è purtroppo scomparso prima di poter vedere realizzata la sua idea. 
6 P. Peuwsen, «Der meistgehasste Türke» (intervista ad Orhan Pamuk), Das Magazin, 2 maggio 2005. 
7 A solo titolo esemplificativo: Sarah Rainsford, «Pride and suspicion over Pamuk prize», BBC News, 13/10/2006. http://news.bbc.co.uk/2/hi/entertainment/6049874.stm 
8 Cfr Á. Gurría-Quintana, «Orhan Pamuk, The Art of Fiction No. 187», (intervista ad Orhan Pamuk), The Paris Review. http://www.theparisreview.org/interviews/5587/the-art-of-fiction-no-187-orhan-pamuk 
"The Nobel Prize in Literature 2006". Nobelprize.org. 11 Dec 2012 http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/2006/ (traduzione dell’autore). 
10 O. Pamuk, İstanbul. Hatırlar Ve Şehir, YKY, Istanbul 2003, trad. it. di Şemsa Gezgin, Istanbul, Einaudi, Torino 2006, pp. 89-105. 
11 Cfr ibi, pp. 169 -174. 
12 Cfr O. Pamuk, Benim Adım Kırmızı, Cağaloğlu, Istanbul 1998, trad, it. di Marta Bartolini e Şemsa 
Gezgin, Il mio nome è Rosso, Einaudi, Torino 2001, pp. 436-437. 
13 O. Pamuk, Kar, İletişim Yayınları, Istanbul 2002, trad, it. di Marta Bartolini e Şemsa Gezgin, Neve
Einaudi, Torino 2004, p. 277. 
14 Cfr O. Pamuk, Masumiyet Müzesi, İletişim Yayınları, Istanbul 2008, trad. it. di Barbara La Rosa 
Salim, Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino 2011, pp. 112-160. 
15 Cfr ibid. pp. 558 -575. 
16 Ş. Pamuk ( n. 1950). Storico dell’economia, detiene la cattedra in Contemporary Turkish Studies 
presso la London School of economy. È il fratello maggiore di Orhan Pamuk. 
17 Cfr O. Pamuk, Istanbul, pp. 289 – 297. 
18 Cfr O. Pamuk, Neve, p.10.
19 O. Pamuk, Il museo dell’innocenza, p. 575. 
20 O. Pamuk, Il mio nome è Rosso, p.1 
21 Intervista ad Orhan Pamuk del 28 novembre 09: http://it.euronews.com/2009/11/28/pamuk-se-lue-e-liberte-egalite-fraternite-la-turchia-ha-un-posto-in-europa/


Carlo L. E. Pallard
Nato a Torino nel 1988, laureato a pieni voti in Storia (Società e Culture d’Europa) presso l’Università di Torino nel 2011 (tesi dal titolo: Tra Oriente e Occidente: il percorso intellettuale e politco di Alija Izetbegović), si occupa di storia contemporanea, con particolare riferimento all’area balcanica e anatolica.



Rinvenibile anche su Il Brogliaccio

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